S. Martinoli: L’architettura nel Ticino del primo Novecento

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Titel
L’architettura nel Ticino del primo Novecento. Tradizione e modernità.


Autor(en)
Martinoli, Simona
Erschienen
Bellinzona 2008: Edizioni Casagrande
Anzahl Seiten
Preis
184 S.
URL
Rezensiert für infoclio.ch und H-Soz-Kult von:
Pier Giorgio Gerosa

Un lodevolissimo impegno etico e scientifico ha animato Simona Martinoli nella ricostruzione di un periodo chiave della storia dell’architettura e del Ticino. Come in altre imprese del genere, l’accostamento di due questioni diverse produce nuove conoscenze e prese di coscienza, ma anche nuovi interrogativi che diventano brucianti non appena si gratti sotto la superficie delle parole e non ci si accontenti del senso comune.

Le due parole – le due questioni – sono l’architettura e il Ticino: cose che sembrano naturalmente andare a braccetto, specie di questi tempi, ma che tuttavia suscitano reciproche aporie. L’interrogativo sta nel rapporto tra lo sviluppo storico delle idee all’interno delle discipline stesse o in un contesto mondiale, e le sue manifestazioni negli ambiti spaziali (o territoriali) delle società o delle culture o degli Stati. Si sa che la scoperta dei rapporti tra le idee e i luoghi è uno dei compiti interpretativi principali dell’operazione storica come intesa da Michel de Certau. Accostare l’architettura e il Ticino nella prima metà del ventesimo secolo è dunque un’impresa tutt’altro che semplice. Questo vale per l’architettura, perché durante questo periodo avviene una cesura epocale, una rivoluzione, paragonabile soltanto a quella di circa seicento anni prima con l’invenzione della prospettiva. Quanto avviene nelle pratiche spaziali tra la fine del primo decennio del ventesimo secolo e il 1923 circa (passeggiando tra pittura, filosofia e architettura) non ha paragoni sull’arco di molti secoli. vale anche per il Ticino, perché dopo l’euforia iniziale dell’istituzione della Repubblica cantonale (autonoma ma non indipendente), la prima metà del Novecento rivela tutte le contraddizioni della sua doppia appartenenza, ma in aree epistemico-ontologiche diverse (linguistiche, culturali, economiche, politiche). Si genera quindi quel fenomeno, che mi è piaciuto chiamare delle marginalità polisemiche, per cui la marginalità si manifesta in ambiti e modi diversi a seconda del centro considerato. Di qui, l’oscillazione che venne detta fra «italianità ed elvetismo», ma che in realtà è discrepanza fra gli strati autonomi dell’essere. La tentazione del ripiegamento, come bene illustrano questo ed altri libri, è molto forte: purtroppo, il ripiegamento si accartoccia su di un mondo rurale e montano che contraddice l’aspirazione a svolgere un ruolo di peer to peer al massimo livello delle sovranità politiche e dell’innovazione culturale e scientifica.

Ritorniamo con questo all’architettura che, come tutte le attività a valenza semiotica, svolge pure un ruolo di comunicazione di idee, valori, credenze, attese della società di cui realizza materialmente l’abitare, lo stare in un determinato luogo, il creare i luoghi, facendo intervenire quell’interazione di cui dicevamo all’inizio. Qui si manifesta appunto l’impegno scientifico dell’autrice. È infatti risaputo (almeno da qualche decennio) che la storiografia del «movimento moderno» trionfante (da Giedion e Zevi in avanti) ha operato una teleologica riduzione dell’universo degli oggetti presi in considerazione per illustrare l’autofondazione del nuovo paradigma architettonico che erompe attorno al 1910. In quelle storie e nella loro sequela, e nella coscienza collettiva degli architetti, tutta una serie di edifici, quelli che non s’ispirano ai parametri spaziali quadridimensionali e postprospettici (né ai nuovi criteri estetici sperimentali, né al cambiamento degli elementi iconico-compositivi del corpo edilizio) fu censurata. Ciò si è rivelato particolarmente increscioso perché gli sviluppi dopo il 1970 hanno mostrato che in realtà l’altra corrente, non quadridimensionale (o non «moderna», come dicono i modernisti) è in realtà rimasta sempre presente, cosí che si può parlare di due linee di sviluppo sovrapposte, che diventeranno pienamente visibili con l’apparizione del postmoderno (o dell’ipermoderno), con la crisi delle realizzazioni urbane funzionaliste, con il rinnovo degli studi storici sulla città e con la scoperta dell’edilizia storica a partire dal decennio 1960.

Simona Martinoli ha perciò colmato una lacuna nella storiografia dell’architettura ticinese, ricostruendo tutto lo spessore della prima metà del ventesimo secolo, e facendolo in modo plurale, interessandosi cioè non solo alla produzione architettonica, ma anche alle azioni di conoscenza del patrimonio architettonico cantonale e ai movimenti d’opinione e di salvaguarda di tale patrimonio. Questo modo di guardare all’architettura, che con Françoise Choay chiamiamo culturalista (termine poi ripreso da altri) porta anche al risultato sorprendente che il libro è quasi piú attento alla ricezione dell’architettura nelle cerchie culturali e politico-amministrative che al discorso autonomo dell’architettura tenuto dagli architetti stessi, i quali, durante tutto il periodo, appaiono prioritariamente attenti a dimostrare la loro ticinesità, pur perseguendo il rinnovamento delle forme se non la riforma dell’architettura come intesa dai maestri del «movimento moderno».

Per illustrare gli sviluppi durante la prima metà del Novecento, l’autrice conduce la sua esposizione lungo un percorso temporale, scandendolo secondo le grandi date della storia politico-sociale e caratterizzandolo tematicamente. La prima parte va dalla metà del xIx sec. ai primi anni del xx, mettendo in relazione le conseguenze dell’industrializzazione e della creazione degli stati nazionali con i movimenti architettonici. I paradigmi architettonici del periodo sono il neoclassicismo, lo storicismo, il neomedievalismo e per finire il liberty, con una successione nella quale i rapporti del Ticino con l’esterno sono amichevoli e fecondi. La seconda parte affronta gli anni del secolo scorso fino alla prima guerra mondiale, caratterizzandoli con l’interesse per il patrimonio tradizionale e il suo studio. In questo periodo intermedio, ma anche nel successivo, risaltano con forza i movimenti di conoscenza del patrimonio architettonico che si formarono dall’inizio del Novecento mediante l’azione di Edoardo Berta, della Società ticinese per la conservazione delle bellezze naturali ed artistiche e di singoli studiosi, e che si diedero il compito, a dire il vero non ancora esaurito oggi, di catalogare, interpretare e illustrare gli edifici del passato. Nella terza parte, che copre il periodo fra le due guerre, sono trattati i due movimenti antitetici del regionalismo e del modernismo. Ma qui si deve essere molto attenti, perché la loro valenza, per il Ticino, è completamente diversa. Il regionalismo, proprio seguendo l‘insegnamento di Boito e di Beltrami, deve essere inteso come una variante dello storicismo (forzatamente eclettico, in quanto risultato dell’invenzione illuminista della libertà e della storia) che si dà riferimenti locali e non accademici, e pertanto s’inserisce nell’altra questione portante, quella dell’identità collettiva. Il modernismo, invece, assume in Ticino durante questi anni, e contrariamente a quanto avviene nei centri innovatori, una connotazione ancora piú estranea, non solo invenzione fantasiosa staccata dalla tradizione, ma anche intrusione straniera, tanto sul piano concreto che su quello intellettuale, sia pure nella versione per quel periodo timida e ibrida adottata dagli architetti locali. La parte finale, il decennio 1940, è visto come una compresenza di tendenze regionaliste e moderniste, nelle quali la situazione politica di una Svizzera (e di un Ticino) accerchiati da regimi totalitari esercita dapprima un’azione costrittiva sui valori rappresentati dall’architettura (con un’accentuazione dei caratteri regionalisti), e in seguito apre a tendenze eterogenee tra l’invenzione di un neo-stile ticinese (detto per l’appunto detto «Tessiner Stil» nella lingua di chi guarda il Ticino dall’esterno e si arroga il diritto d’interpretarlo e di formulare dottrine normative) e la ripresa del modernismo (nel senso indicato sopra), avviando un processo che si rafforzerà con lo sviluppo economico e la mutazione culturale della seconda metà del secolo.

L’impressione che si ricava dalla lettura del libro, al di là della ricchezza delle esperienze presentate e della bellezza delle architetture illustrate, è quello di un costante palleggio, durante l’arco di mezzo secolo, tra innovazioni e tradizionalismi, senza che appaia una linea vincente. L’autrice conclude che «dopo mezzo secolo, il cerchio si chiude: tornano alla ribalta problemi analoghi a quelli affrontati all’inizio del Novecento a testimonianza di quanto sia fragile l’equilibrio tra modernità e tradizione». La nostra interpretazione è che il rapporto tra modernità e tradizione, in Ticino e nella sua architettura, sia stato falsato dalla questione dell’identità, proprio per quelle ragioni che dicevamo all’inizio, inerenti alla difficoltà della creazione statuale ticinese e all’interruzione dei legami istituzionali tra il Ticino ed i centri innovatori della propria area culturale. Per queste ragioni, quando il «moderno» arrivò in Ticino ad opera di architetti ticinesi, cioè (tralasciando la parentesi asconese) essenzialmente all’inizio del decennio 1930, con vent’anni circa di ritardo sulle manifestazioni avanguardiste europee, fu visto come un’affluenza aliena, non come una rinascita del genio costruttivo regionale, e perciò avversato. Gli stessi architetti modernisti ticinesi, durante il periodo trattato dal libro, non testimoniarono il coraggio di assumere pienamente le nuove concezioni spaziali, estetiche ed etiche del funzionalismo (centro-europeo) o del razionalismo (mediterraneo), ma oscillarono tra forme nuove e forme della tradizione regionale nella preoccupazione di testimoniare il loro lealismo identitario.

L’architettura del Ticino della prima metà del Novecento, come traspare dal libro di Simona Martinoli, mostra il percorso che sarà esplorato in Europa soltanto piú tardi, dopo la crisi del «movimento moderno»: da un lato, tenacemente attivatore di una memoria delle esperienze ancorché mortificato nel discorso da una fallace interpretazione dell’identità collettiva e, dall’altro, anticipatore degli sviluppi dell’architettura al di là di un altrettanto fallace slancio verso un futuro scollato dalla realtà.

Citation:
Pier Giorgio Gerosa: Rezension zu: Simona Martinoli, L’architettura nel Ticino del primo Novecento. Tradizione e modernità, Bellinzona, Casagrande, 2008. Zuerst erschienen in: Archivio Storico Ticinese, Nr. 146, 2009, S. 365-367.

Redaktion
Veröffentlicht am
17.10.2011
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Die Rezension ist hervorgegangen aus der Kooperation mit infoclio.ch (Redaktionelle Betreuung: Eliane Kurmann und Philippe Rogger). http://www.infoclio.ch/
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